Il Ragazzino

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20/10/2022

I passi rimbombano per la tromba delle scale, attraversando perfino la porta blindata dall’altra parte della stanza. Si fanno sempre più forti e veloci, quindi rallentano e si fermano.

L’orologio del computer segna le tre e qualche minuto: dev’essere di nuovo il ragazzino dell’ultimo piano.

Dall’altra parte della porta i passi sono uno scricchiolare leggero, come quando qualcuno cerca di camminare in punta di piedi o senza fare troppo rumore. Si fermano. Che sia la volta buona che premerà quel benedetto campanello, magari con la scusa del sale o qualche altra cazzata del genere? Dopo quasi un mese di questa storia, sarebbe anche ora.

I passi si allontanano, tornano a rimbombare per le scale. Anche oggi niente.

Mi lascio andare contro lo schienale della poltrona e giocherello con la matita abbandonata sopra la pila di appunti. Forse sono io che dovrei darmi una mossa e sono io che dovrei premere il suo campanello, invece che aspettare un altro mese che si decida. Sempre che si decida. A diciannove anni si fa in fretta a cambiare idea.

La finestra di Fortran lampeggia dallo schermo, nascondendo solo in parte la mail del cliente giratami dal responsabile. Nell’ultima ora, avrò scritto sì e no due righe di codice. Meglio che mi metta al lavoro, invece di pensare al bel ragazzino dell’ultimo piano.

Passo un paio di ore a lavorare, questa volta davvero. Quando Roberto apre la porta, stringo tra le labbra la matita degli appunti e mi sto preparando ad avviare i nuovi test: speriamo che a questo giro non spuntino magagne.

La voce di Robi risuona nell’appartamento, anche se sono a due metri da lui. «Ma’, prendo una cosa in camera e vado. Stasera ceno fuori.» Ti pareva. Alzo una mano in segno di assenso, ma sta già correndo in camera sua.

Altri passi si avvicinano, timidi. «Buonasera.»

Il ragazzino dell’ultimo piano è sulla soglia, le mani in tasca e lo sguardo che si sposta da un angolo all’altro dell’appartamento. Purtroppo, le spalle larghe e il ventre piatto sono coperti da un giaccone verde. Quanto meno, posso ammirare le labbra carnose e gli zigomi alti, arrossati dal freddo che c’è fuori. E forse non solo da quello.

I suoi occhi si fermano su di me e si abbassano sul pavimento. «Roberto mi sta girando i suoi appunti di Matematica. Per darmi una mano, sa.»

«Anche lui ha fatto fatica, l’anno scorso.» Mi rigiro la matita tra le dita. «Alla fine l’ho dovuto aiutare io.» Chissà che non acchiappi l’esca, a questo giro.

Roberto si affaccia dalla porta del disimpegno. «Dammi un attimo, che sono infognati in fondo.» Riscompare.

Dato il casino in camera sua, non mi stupisce. Chissà se la camera del ragazzino è incasinata come quella di mio figlio. Data l’età, ci scommetterei. E chissà se anche lui tiene una scatola extra-large di preservativi nel cassetto.

Si passa una mano tra i capelli mossi. Ha le dita lunghe e sottili come quelle di un pianista; dita che potrebbero risalire dalla punta dei piedi fino al ventre e ancora su, per suonarti fin quando non emetti una melodia che soddisfi il loro proprietario.

«Stasera…» La mia voce è roca di desiderio, non va bene. Mi schiarisco la gola. «Stasera dove andate di bello?»

Scuote le spalle. «Io non vado. Credo che Roberto vada con―» Sgrana gli occhi, stringe le labbra. Ah, Robi esce con una ragazza e lui non sa se dirmelo. 

Quindi lui è a casa, stasera. Magari farà il balletto che fa tutti i giorni o quasi, avanti e indietro per le scale fino alla mia porta. Scommetto che sarà un buco nell’acqua, di nuovo. D’altronde cosa dovrei fare? Una donna di quasi cinquant’anni, con un figlio, non ci può provare con un diciannovenne.

Un grido dalla camera di Roberto. «Trovati! Un attimo che rimetto a posto.» A posto… Starà ributtando i quaderni a casaccio nell’armadio.

Il ragazzino mi fissa; abbassa gli occhi non appena mi giro verso di lui.

Dio mio, è davvero bello. Potrebbe finire nel mio letto, se solo lo volessi. Però non si fa: sarebbe pietoso da parte mia.

Perché, poi?

«Stasera vieni qui.» Parlo prima di poter collegare la lingua al cervello.

Alza gli occhi dal pavimento. «Cosa?»

Ormai la frittata è fatta. «Sai, per―»

Robi esce dal disimpegno sventolando un quaderno. «Scusa Carlo, c’era un po’ di casino.»

Tossicchio. «Strano.»

«Ma’!»

«Va bene, lasciamo perdere. Divertitevi stasera.»

Mentre mio figlio mi dà le spalle, faccio l’occhiolino al suo compare. Lui risponde con un sorriso.

***

Mi metto di fronte allo specchio: se mi piego in avanti, il maglione che fa da vestitino si alza abbastanza da scoprire le natiche fasciate dai leggings; in compenso, se non lo faccio sembra un abbigliamento da casa del tutto innocente. Non fosse per il trucco, si potrebbe pensare che il mio fine ultimo siano davvero le ripetizioni.

Non fosse per il trucco e per i preservativi che ho rubato dal cassetto di Robi, infilati tra i ripiani della mia postazione.

Dovrei vergognarmi: quarantotto anni e mi comporto come una gatta in calore con un ragazzino. Che ragazzino, però. Quando gioca a calcetto insieme a Robi e agli altri ragazzi del vicinato, metà delle signore del palazzo passano “casualmente” nei paraggi.

Ma sì, non serve che ci faccia qualcosa: anche solo guardarlo da vicino sarà un piacere.

Suonano alla porta.

«Un attimo!» Lancio le ciabatte azzurre con le stelline sotto il letto e ne infilo un paio nere, molto più presentabili.

Il ragazzino è in piedi davanti alla porta, entrambe le mani strette intorno al raccoglitore che gli ha dato Robi. Continua a spostare il peso del corpo da un piede all’altro.

Faccio cenno verso l’interno. «Ciao, entra pure. Siediti dove preferisci.»

«Non so come ringraziarla, signora.»

«Per carità, niente “signora”! Chiamami Anna e dammi del tu.» Anche se non sarebbe male sentirmi chiamare “signora” mentre sta sopra di me.

Avvampo. Gli do le spalle e indico il divano con il tavolino. «Vuoi una birra?»

Vado in cucina prima che possa rispondere: non so se lui ha bisogno di una birra, ma io di sicuro sì. Mi pare comunque si sentire una risposta di assenso alle mie spalle. Ottimo.

Devo stare calma: non sto facendo niente di male.

Tiro due bottiglie di birra fuori dal frigo e me ne poggio una sulla fronte: un po’ di refrigerio farà scomparire questo dannato rossore. Le appoggio sul ripiano e apro un cassetto per prendere un apribottiglie.

Dei passi alle mie spalle.

Il ragazzino è in piedi sulla porta della cucina e si guarda intorno, proprio come stamattina sulla porta d’ingresso. Questa volta riesce a spostare lo sguardo su di me e a tenerlo lì.

«Serve una mano?» Si avvicina con passo incerto.

«Bevi dal bicchiere o dalla bottiglia? Io preferisco dalla bottiglia.»

«Anch’io.» Prende una delle due bottiglie. Visto così da vicino mi supera di quasi una testa e mezza: sarà almeno uno e novanta. Anche le sue spalle sono molto più larghe, da vicino, tanto che potrei sparirci dietro. O sotto.

Prende un sorso di birra, senza lasciarmi con lo sguardo. Mi vuole, ormai è chiaro, eppure non si decide. Perché si dovrebbe decidere lui, poi? In fondo sono io l’adulta, tra noi due.

Direi che è ora di finirla con questa farsa: o mi muovo io, o qui non se ne fa niente.

Gli avvicino la mia bottiglia al viso. «Senti che fresca.» L’appoggio sulla sua pelle e la faccio correre fino al collo. Lui piega la testa di lato e socchiude gli occhi, si lecca le labbra. All’altezza del cavallo sta comparendo un gonfiore inequivocabile. Sia benedetto il vigore della gioventù.

«Sei qui per le ripetizioni? Di’ la verità.» Passo le dita dell’altra mano sulla pelle ancora fredda.

Sospira e fa un piccolo cenno di assenso.

«Sicuro.» Gli rispondo. «Per quali ripetizioni, però? Dillo, ragazzino.»

Tiene gli occhi chiusi. «Io… Lei è molto bella, signora Anna.»

Gli ho detto di non darmi del lei e di non usare il “signora”, eppure la cosa provoca una scarica che parte dal petto e scende fino al mio bassoventre.

Riprendo ad accarezzarlo con la bottiglia fredda. «Grazie. Anche tu sei molto bello.» Gli accarezzo il petto. «Fatti guardare meglio. Spogliati.»

«Qui?»

«Qui. Se ti va.»

Abbassa gli occhi, intimidito.

Ecco, ho esagerato: è stato bello illudermi, finché è durato.

Il ragazzino poggia la birra dietro di sé e si toglie la felpa, lasciandola cadere a terra. Da bravo giovane scapestrato, non indossa la maglia della salute e mostra il petto scoperto in tutto il suo splendore. I pettorali sono coperti da una peluria sottile e lunga pochi millimetri, che circonda le areole dei capezzoli e scende lungo lo stomaco piatto.

Passo la bottiglia sul capezzolo sinistro. Si sta riscaldando, eppure strappa un brivido al ragazzino. Tolgo la bottiglia e avvolgo il capezzolo con la lingua; sa di pelle pulita e profuma di talco con un accenno speziato. Faccio lo stesso con l’altro capezzolo.

Sopra di me, il ragazzino sospira e la sua carne trema tra le mie labbra. Voglio di più.

Lascio la birra sul ripiano e passo entrambe le mani su quella schiena compatta, piena di muscoli che guizzano appena sotto la pelle, senza grasso che si metta in mezzo. Lecco la linea di pettorali, scendo con la lingua e mi abbasso sempre di più, finché non mi trovo in ginocchio di fronte a lui. Il cavallo dei pantaloni minaccia di scoppiarmi in faccia da un momento all’altro tanto è gonfio.

Lui mi guarda dall’alto con aria estatica. Si slaccia i jeans e li abbassa insieme alle mutande quel tanto che basta per far esplodere fuori il suo pene. Il ragazzino ha un bel cazzo, spesso ma non troppo grosso; odora di pulito, nonostante una nota salata di sudore.

Passo la lingua lungo l’asta, la faccio girare intorno al glande e scendo di nuovo. Una grossa vena pulsa impazzita sotto la mia lingua.

«Sei lì lì?»

Arrossisce. «Sì, ma―»

«Inginocchiati e occupati di me. Tranquillo.» Mi alzo e abbasso i leggings; nonostante le mutande, c’è una grossa macchia bagnata sul cavallo. Dio mio, sto gocciolando.

Il ragazzino si accomoda tra le mie cosce, tuffando la faccia nel mio monte di Venere.

Lascio andare la testa all’indietro, mentre il calore del suo fiato si somma a quello del mio bassoventre.

La porta d’ingresso si apre. «Ma’, mi hanno dato―» Robi si affaccia alla porta della cucina. I suoi occhi passano dalle bottiglie abbandonate sul ripiano, ai vestiti buttati a terra, al ragazzino tra le mie cosce.

Credo che morirò sul posto. Ora, tipo.

«Ma’!» Robi si poggia allo stipite della porta. Chiude gli occhi, prende un profondo respiro. «Io… Io non ho visto niente.»

Il ragazzino segue i suoi movimenti con gli occhi sgranati.

Mio figlio ci dà le spalle, prende un altro respiro. «Esco. Per amor di Dio, non fatevi trovare quando torno. Non in cucina almeno.»

Passi, la porta d’ingresso che si spalanca. «Divertitevi!»

Non so se fosse sarcastico ma, dato che il peggio ormai è successo, direi che non resta altro da fare.

Faccio un cenno col mento al ragazzino. «Su, riprendi: non mi piacciono i lavori a metà.» 

Scritto da: Cleis Ende

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